Accademia MIBES: Medicina Integrata, Benessere e Salute

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Giandomenico D’Alessandro

Quando un medico è considerato particolarmente bravo? Quando cura o addirittura salva la vita di una persona? Sicuramente! Ma da cosa deriva questa abilità? Dal fatto che la medicina si occupa di diagnosticare la malattia, e poi “il gioco è fatto” in quanto vengono applicati, fortunatamente, determinati protocolli. Certo, a volte le terapie sbagliano ma, se la diagnosi è corretta, il motivo è più che altro negligenza. La terapia medica deriva quindi strettamente, in maniera abbastanza lineare, dalla diagnosi. Dunque, pensate al medico per eccellenza: il Dr. House. Perché lui è il miglior medico possibile? Perché ha abilità diagnostiche eccezionali! È la capacità di compire diagnosi a definire bravo un medico! Ma come può un medico diventare un ottimo diagnosta? Come fa a riconoscere che dietro a segni e sintomi vi è una determinata patologia? Semplice: conoscendo già quella specifica malattia. Detto altrimenti: un medico è quanto più bravo quante più malattie conosce (e ricorda)! Più malattie studia, più è probabile che un medico sappia dare un senso, ossia fare una corretta diagnosi, al quadro clinico del paziente che incontra. Una volta fatta la diagnosi, grazie ai protocolli terapeutici definiti grazie ad un medico scientifico che, quantomeno per l’ambito medico-farmacologico, ne ha già ampiamente valutato costi e benefici (ad eccezione fatta per le terapie sperimentali), segue l’adeguata terapia.

È vero, nella cura è centrale anche la relazione terapeutica, l’empatia e altri aspetti placebo. Ma restiamo per adesso sulla linea di pensiero appena tracciata. Qual è la prova dell’importanza della malattia per la medicina? Che la medicina entra in crisi quando dietro ad un determinato quadro di segni e sintomi possono trovarsi malattie diverse, che magari necessitano anche di cure molto diverse. In tal caso, le terapie possono interferire fra loro e diventare anche controproducenti. Un’ulteriore prova si evidenzia quando il quadro clinico manca di una chiara malattia o ‘entità nosologica’ di riferimento. Esistono infatti i cosiddetti sintomi medicalmente inspiegabili (MUS, in inglese), ossia sintomi che difficilmente sono riconducibili ad una malattia (sempre se lo siano). Pertanto, segniamoci questa frase, esattamente com’è: la bravura di un medico è proporzionale alla sua conoscenza delle malattie.

Qualche osteopata probabilmente ha compreso perché questa frase è così formulata. Sto infatti facendo riferimento ad una frase di Andrew Taylor Still, il padre fondatore dell’osteopatia, ossia che per l’osteopata “l’abilità è proporzionale alla comprensione del normale”. L’osteopatia è una medicina di terreno e, pertanto, si occupa di valutare come il paziente risponde alle leggi della normalità, non della malattia. Maggiore è la nostra conoscenza della normalità, ossia della fisiologia, della salute e delle leggi sottostanti ai processi terapeutici, e maggiore sarà la nostra capacità di riportare il paziente alla normalità. Dobbiamo avere bene in mente un’idea della normalità anatomica, fisiologica e palpatoria per riportare il paziente alla normalità. Non dobbiamo tanto riconoscere la patologia, ossia la deviazione dalla norma: dobbiamo, al contrario, focalizzarci sull’avere familiarità con la normalità: questo è vitale.

Consideriamo l’anatomia: se sappiamo come è fatto un ginocchio normale, sappiamo riportarlo alla sua normalità anatomica. Consideriamo poi la fisiologia: se sappiamo cosa deve fare un ginocchio normale, diventa semplice ricondurlo a fare quanto per sua ‘normalità’ (o ‘fisiologia’) può e deve fare. Arriviamo poi alla palpazione raffinata: se sappiamo quali sono il movimento e la qualità tissutale normali, sappiamo a cosa dobbiamo “puntare” per ricondurre il tutto alla normalità. La normalità deve essere considerata da noi terapeuti quale modello di riferimento e noi, in quanto terapeuti, dobbiamo aiutare il corpo a ritornare alla sua normalità. O alla sua originalità, come direbbe Jim Jealus, uno dei custodi della tradizione dell’osteopatia biodinamica, scomparso recentemente.

Ecco dove si inserisce l’embriologia biodinamica di Blechschmidt, la quale è un’embriologia della salute, non della patologia! Se leggete un testo di embriologia medica, circa il 95% e più del libro tratta di patologia, malformazioni, devianze, anomalie, etc. Addirittura ci sono testi che non hanno UNA foto di un neonato sano! In questi testi, lo sviluppo fisiologico normale (sempre basato, per inciso, su meccanismi genetico-centrici) funge semplicemente da base per mostrare la malattia. È chiaro, quindi, come il focus della medicina sia la malattia, e non la salute, a partire dall’embriologia stessa! Si tratta di un paradigma nettamente diverso da quello che abbiamo (o dovremmo avere) in osteopatia! Sia chiaro: non è migliore o peggiore. È semplicemente diverso. Nei libri di Blechschmidt, ad eccezione di qualche frase, “è tutta salute”: il centro della trattazione è sempre il normale sviluppo biodinamico dell’embrione, il quale segue sempre le medesime leggi biodinamiche e differenziazioni. E questo aspetto si ricollega alla parola ‘originalità’ usata da Jim Jealus. Perché se durante il trattamento (non per forza in biodinamica e basta, secondo me) riusciamo a rimettere in contatto il paziente con la sua originalità, il potenziale terapeutico cresce esponenzialmente perché le forze formative biodinamiche (che rimangono sempre presenti finché viviamo) sono le reali ricostruttrici della normalità!

Pertanto, non dobbiamo farci impressionare (in senso letterale, qualcosa che si imprime nella nostra mente) da quanto è sbagliato o deviato, bensì dobbiamo nutrire la nostra testa e le nostre mani da terapeuta di immagini di normalità, fisiologia, salute… insomma, di originalità! Questo modo di approcciarsi aumenterà la nostra comprensione del normale! Preferisco usare la parola “comprensione” e non la parola “conoscenza” dato che le malattie si conoscono, la normalità… non proprio. Chiariamo questo passaggio: puoi ovviamente conoscere la normalità nella classica maniera in quanto la studiamo in senso accademico (ad esempio, devi sapere che, dato che il diaframma ha quella certa origine embriologica, clinicamente osserviamo certe cose; devi sapere che, a fronte delle relazioni embriologiche presenti fra gli archi faringei, abbiamo un modo più corretto per posizionare le mani; devi sapere la potente forza formativa del tubo neurale per capire il motivo per cui in certe parti del corpo avvengono fenomeni dotati di enorme reattività e potenza tissutale). Ma devi lasciarti impressionare, devi lasciare che quei brillanti schemi riguardanti i movimenti del normale sviluppo embrionale che disegnava Blechschmidt entrino dentro di te in modo che costruiscano un’immagine di normalità, un’immagine di originalità. I termini di ‘normalità’ e ‘originalità’ diventano, quindi, intercambiabili.

Pertanto, per concludere, un medico è tanto più bravo quante più malattie conosce. Un osteopata è tanto più bravo quanta più normalità comprende. Ed ecco il vantaggio che per un osteopata ha l’embriologia biodinamica di Blechschmidt: essendo l’embriologia della normalità, l’embriologia biodinamica di Blechschmidt aumenta la nostra comprensione del normale (e non della malattia). E inoltre, permette alle “altre” normalità (anatomica, fisiologia e palpazione osteopatica) di essere inquadrate nella prospettiva corretta, diventando parte di un sistema perfettamente logico. Oltre che bellissimo.

Se quindi vuoi comprendere la salute e la normalità per meglio ricondurre i tuoi pazienti alla loro originalità, iscriviti al Corso completo di Embriologia Biodinamica di Blechschmidt.

(Fonte immagine: immagini di pubblico dominio.)