Accademia MIBES: Medicina Integrata, Benessere e Salute

Piattaforma eLearning

Nicola Barsotti, Diego Lanaro, Marco Chiera

Il dolore è un elemento cardine della nostra vita e delle risposte fisiologiche del nostro organismo: se non avvertissimo dolore, probabilmente non arriveremmo a 20 anni vivi, come testimoniato dalle persone che, per una rara anomalia congenita, non sviluppano la percezione di dolore. Benché fastidioso, il dolore è infatti uno dei modi con cui l’organismo ci protegge da danni fisici e non solo.
Quando però il dolore è estremamente acuto oppure inizia a cronicizzarsi e a impedire sempre più attività della vita quotidiana, da risposta di difesa utile ma fastidiosa si trasforma in un vero e proprio incubo.

Ed è qui che subentriamo noi in quanto operatori sanitari o operatori della salute: subentriamo per aiutare i nostri pazienti a fronteggiare il dolore che avvertono, a far passare il dolore, a ridurre la disabilità che il dolore spesso comporta e a far loro riprendere controllo della propria vita.
Tuttavia si tratta di un compito nettamente più semplice a dirsi che a farsi.

Quante volte, infatti, mettiamo in atto le nostre conoscenze e competenze senza però ottenere risultati? Oppure quante volte il dolore magari passa, i nostri pazienti riprendono a svolgere alcune attività, ma poi il miglioramento sparisce e tutto torna come prima? Oppure quante volte, non importa dove e come sbattiamo la testa, ma non riusciamo a far minimamente diminuire il livello di dolore percepito dai nostri pazienti?

Tutte le volte che ci troviamo in una situazione simile, le domande che sorgono spontanee sono due:

  • domanda più “pragmatica”: siamo effettivamente noi i professionisti o le persone giuste per trattare quel dolore o aiutare quel paziente?
  • domanda più “importante”: ci stiamo veramente prendendo cura dei nostri pazienti o stiamo “solo” trattando il dolore?

Benché la prima domanda sia sicuramente centrale – è essenziale che ogni paziente sia seguito dal professionista più adatto a gestire la sua situazione – noi vogliamo soffermarci sulla seconda, perché si tratta della domanda la cui risposta ha spesso, soprattutto nel mondo della complessità, le più forti ripercussioni sulla clinica.

Spesso ci capita infatti di concentrarci solo ed esclusivamente sul dolore, in quanto si tratta del sintomo preponderante, di ciò che dà maggiormente fastidio ai nostri pazienti e il motivo per cui sono venuti da noi. Senza dimenticare che spesso la richiesta stessa dei nostri pazienti è: “Lei può farmi passare questo dolore?“.
Tuttavia, quando abbiamo a che fare col dolore, forse di più che con qualunque altro sintomo, questa attenzione focalizzata rischia di essere la più grande trappola in cui possiamo cadere, noi e i nostri pazienti.

Perché una trappola? Perché gli studi scientifici da circa mezzo secolo a questa parte hanno dipinto un quadro del dolore assai articolato.

Il dolore, per cominciare, NON è una sensazione, né uno stimolo che arriva da chissà dove o è trasportato da chissà quali fibre: infatti, non esistono le vie del dolore o “algocettive”. Esistono al contrario le fibre nocicettive, che sono però le fibre che trasportano segnali o stimoli ad alta soglia che possono danneggiare i tessuti, nient’altro. Patrick Wall, stesso, uno dei padri della ricerca sul dolore, ha espresso come considerare le fibre nocicettive quali fibre del dolore è stata una banalizzazione di cui tutt’oggi paghiamo il prezzo. In che modo paghiamo il prezzo? Con una prevalenza del dolore cronico di 1 persona su 5.

Ma se non si tratta di una sensazione, allora cos’è il dolore? Dargli una definizione esatta va oltre lo scopo di questo articolo.
Ciononostante, quanto è centrale dire è che il dolore è una risposta elaborata dall’intero organismo, dall’intera unità mente-corpo che siamo noi, una risposta che deriva dal nostro intero vissuto esperienziale quando c’è qualcosa che non va per il verso giusto o:

  • in senso biologico, quando siamo in pericolo di subire danni pericolosi per la nostra sopravvivenza
  • in senso pragmatico, quando le nostre risorse sono inferiori alle richieste (o stressor) che dobbiamo fronteggiare
  • in senso “esistenziale”, quando il senso che diamo al mondo o la nostra capacità di agire sul mondo viene meno

Come detto, entrare nel merito di queste definizioni va oltre lo scopo di questo articolo. Ma citare queste definizioni ci permette di rispondere alla domanda fatta poco sopra.
Nel momento in cui il dolore è tutto questo, ha davvero senso focalizzarci sul mero dolore inteso come “sintomo”, magari focalizzandoci solo sugli aspetti meccanici o infiammatori più “locali” e vicini al dolore?
Se ci rifletti bene, probabilmente converrai che diventa vitale concentrarsi sulla persona nella sua interezza e indagare per capire:

  • cosa potrebbe essere migliorato nella vita del nostro paziente
  • cosa conta davvero per il nostro paziente, ossia il vero motivo per cui quel dolore deve passare o cosa nella sua vita sta andando storto

Attuando un simile approccio, due diventano le conseguenze:

  • è necessario ampliare i propri orizzonti e schemi mentali in modo da realizzare che ogni fattore fisico, chimico, biochimico, biologico, psicologico, sociale, ambientale ed esistenziale va potenzialmente considerato
  • è necessario lavorare in team con altri professionisti che possano lavorare in sinergia con noi per prenderci tutti assieme cura dei nostri pazienti, risolvendo ognuno di noi un tassello del puzzle

Naturalmente ogni condizione dolorosa è diversa, dalla fibromialgia alla lombalgia cronica, dall’artrite reumatoide alla cefalea, dall’emicrania alla neuropatia, dall’osteoartrite alla spalla congelata, e ognuna di queste condizioni è vissuta diversamente da ogni persona. Eppur tuttavia la letteratura scientifica ci mostra come in tutte queste situazioni, oltre alle classiche indagini specialistiche e centrate sulla patologia, dobbiamo:

  • porre attenzione alle parole e alle metafore che usiamo per descrivere il dolore, in quanto possono indurre nei pazienti un senso di pericolo che facilita la percezione di dolore
  • sfruttare al meglio l’effetto placebo, ossia il rituale con cui creiamo fiducia nel nostro paziente
  • valutare eventuali alterazioni anatomiche, legate ai tessuti o ad un cambiamento di innervazione
  • fare una completa anamnesi dei traumi fisici passati, per controllare se sono stati risolti o sono rimasti come cicatrici o pattern di compensazione posturali disfunzionali che affaticano i movimenti esterni muscoloscheletrici o interni viscerali alterando la funzione
  • valutare lo stato metabolico, ossia controllare come la persona si nutre e che tipo di alimentazione segue. Spesso, infatti, anche in situazioni come la fibromialgia, assicurarsi una buona regolazione glicemica è il primo passo per diminuire in maniera importante il dolore
  • controllare se vi sono carenze nutrizionali o alterazioni ormonali, in quanto è tipico di molte condizioni dolorose (es. artrite reumatoide, dismenorrea primaria, cefalea, fibromialgia), anche a causa dei farmaci usati per gestirle
  • valutare lo stato di salute psicosociale, dato che lo stress psicoemotivo può influenzare pesantemente la salute corporea, come ci insegna il paradigma PNEI e come ci mostrano le bandiere gialle usate in fisioterapia per valutare l’evoluzione di un dolore da acuto a cronico
  • raccogliere informazioni sull’infanzia del nostro paziente, per far emergere eventuali esperienze avverse che possono, tramite meccanismi epigenetici, aver influenzato lo sviluppo neuroendocrinoimmunitario e aver reso l’organismo più suscettibile a creare dolore a fronte delle avversità
  • scoprire se e cosa il nostro paziente fa per rilassarsi e per staccare la spina, in quanto il riposo è necessario per impedire circoli viziosi fra dolore, infiammazione, insonnia e alterazioni metaboliche
  • portare alla luce le risorse del nostro paziente, ossia cosa sa fare, di chi può fidarsi, cosa c’è nella sua vita che gli fornire la forza e il coraggio di andare avanti al di là di ogni avversità
  • scoprire lo scopo della vita del nostro paziente, perché spesso il dolore ne impedisce il raggiungimento o vi è in qualche modo legato

Solo in questo modo possiamo dire che ci stiamo veramente prendendo cura dei nostri pazienti, del loro dolore e della loro vita, e solo in questo modo otterremmo davvero risultati duraturi, sul dolore o sulla disabilità che lo accompagna.
Perché, sia chiaro: proprio per questa sua complessità, in alcuni casi il dolore potrebbe non passare mai. Tuttavia, il paziente può comunque imparare a prendersi cura di sé e recuperare completamente la sua vita, con il dolore che diventa solo un fastidio marginale.
E naturalmente, proprio per questa sua complessità, non è necessario agire sempre e comunque su ognuno dei punti sopra citati (che tra l’altro sono solo alcuni): a volte basta toccare il punto giusto per ottenere un risultato eccezionale.
Ma per toccare il punto giusto, è necessario sapere che tutti questi aspetti possono essere coinvolti. Ed è necessario parlare un linguaggio comune a tutti gli operatori sanitari e della salute – quello della medicina integrata o PNEI – se vogliamo agire in sinergia sulla e con la persona avente dolore per risolvere ognuno un tassello del puzzle.

Se ti interessa approfondire i meccanismi dietro al dolore, acquista il corso La PNEI e il Sistema Miofasciale, diretto a tutti gli operatori sanitari e della salute, oppure il corso PNEI ed Osteopatia, specifico per osteopati.

(Fonte immagine: Ache photo created by diana.grytsku – www.freepik.com)

Bibliografia

  • Benedetti (2014), Placebo Effects: From the Neurobiological Paradigm to Translational Implications, Neuron, 84:623-37.
  • Gifford (2013), Topical Issues in Pain 2. Biopsychosocial assessment and management Relationships and pain, Bloomington, AuthorHouse.
  • Hechler et al. (2016), Why Harmless Sensations Might Hurt in Individuals with Chronic Pain: About Heightened Prediction and Perception of Pain in the Mind, Front Psychol, 7:1638.
  • Louw et al. (2020), Integrating Manual Therapy and Pain Neuroscience: Twelve principles for treating the body and the brain, Minneapolis, Orthopedic Physical Therapy Products.
  • Louw et al. (2017), The Effect of Manual Therapy and Neuroplasticity Education on Chronic Low Back Pain: A Randomized Clinical Trial, J Man Manip Ther, 25(5):227-34.
  • Moseley & Butler (2017), Explain Pain Supercharged, Adelaide, Noigroup Publications.
  • Orlandi et al. (2012), Improvement in pain, fatigue, and subjective sleep quality through sleep hygiene tips in patients with fibromyalgia, Rev Bras Reumatol, 52(5):666-78.
  • O’Sullivan et al. (2018), Cognitive functional therapy: an integrated behavioral approach for the targeted management of disabling low back pain, Phys Ther, 98:408-23.
  • Rossettini et al. (2020), Context matters: the psychoneurobiological determinants of placebo, nocebo and context-related effects in physiotherapy, Arch Physiother, 10:11.
  • Stilwell & Harman (2019), An enactive approach to pain: beyond the biopsychosocial model, Phenom Cogn Sci, 18:637–65.
  • Stilwell et al. (2020), Painful metaphors: enactivism and art in qualitative research, Medical Humanities, medhum-2020-011874.
  • Tennant (2014) Hormone Testing and Treatment Enters Pain Care, Hosp Pract, 42(5):7-13.
  • Tick (2015) Nutrition and Pain, Phys Med Rehabil Clin N Am, 26(2015):309-20.
  • Wallden & Nijs (2021), Before & beyond the pain – Allostatic load, central sensitivity and their role in health and function, J Bodyw Mov Ther, 27:388–92.